Patto sociale per crescita ed equità

Guglielmo Epifani  
Presidente dell’Associazione Bruno Trentin

Patto sociale per crescita ed equità

epifani_tamtam.jpg

Questi lunghi anni della crisi stanno cambiando profondamente assetti produttivi, condizioni sociali, interessi, aspettative e domande del nord del paese. Non serve ricorrere alle statistiche per comprendere che dietro i numeri della crisi, il calo del prodotto industriale e dei servizi, l’entità della disoccupazione, si cela la fotografia di quella parte storicamente più sviluppata e più ricca dell’Italia.

Il Mezzogiorno conserva ed esprime la realtà più pesante, soprattutto in termini di in occupazione giovanile e ritardi nella infrastrutturazione civile; ma è evidente che la caduta del prodotto interno,quasi 8 punti fino ad oggi dall’inizio della crisi, passa per il nord, per la condizione delle sue imprese,dei suoi servizi,delle sue filiere. Fa parte di questa trasformazione una crescente divaricazione nei risultati e nelle prospettive interne al sistema produttivo. Quello che colpisce di più infatti in un quadro generale di grandissima e crescente difficoltà, è la contrapposta situazione in cui si trovano le aziende che hanno innovato processi e prodotti, e si sono internazionalizzate investendo nei relativi nuovi mercati, e tutte le altre.

Le prime macinano utili e prospettive di crescita,assumono anche in Italia, programmano investimenti e acquisizioni. Le seconde arrancano, perdono quote di mercato, rinviano investimenti e piani di sviluppo e in molti casi pagano con crisi e chiusure la loro sottocapitalizzazione e gli errori fatti negli ultimi 10 anni. Le catene dell’indotto e delle subforniture e quelle dei servizi seguono la condizione dei mercati e dell’impresa di riferimento.

Più omogenea sembra la condizione dell’artigianato e delle piccole catene di consumo, dove però la scarsa reperibilità di credito, il suo costo crescente e la crescente contrazione della domanda mettono fuori dal mercato un numero sempre più alto di aziende familiari. Infine la crisi di un settore tradizionalmente anticiclico come quello delle costruzioni e dell’edilizia aggiunge, a differenza del passato, problemi ai problemi e apporta un differenziale negativo in termini di disoccupati e stasi degli investimenti davvero impressionante.

Tutto questo quadro ha delle conseguenze inevitabili su differenziali di produttività, politiche della formazione e del lavoro, ricadute sulla situazione territoriale,anche all’interno delle stesse provincie e delle stesse regioni. Prima del terremoto, ad esempio, una zona come quella di Modena presentava pochissimi problemi di carattere produttivo. Nel Veneto, pur in presenza di una contrazione dei livelli della produzione, si mantengono punti di assoluta eccellenza e dinamismo e in tutta la fascia pedemontana in Lombardia la situazione sembra ragionevolmente sotto controllo.

Un patto per la produttività e la crescita richiede quindi, tenendo presenti i bisogni vecchi e nuovi di questa parte del paese, più piani di intervento correlati e più ambiti di lavoro. l primi riguardano il bisogno di attivare, dentro la crisi e dentro la ricerca di una politica di bilancio rigorosa, politiche mirate di sostegno alla innovazione, di stimolo fiscale agli investimenti e di rilancio della domanda nei settori anticiclici.

Non va bene una politica dei due tempi, prima i tagli poi la crescita, perché abbiamo bisogno oggi di uscire dalla spirale depressiva in cui siamo caduti, dove le inevitabili scelte di rigore finiscono anche per ridurre ulteriormente domanda, consumi ed occupazione, deflazionando salari e investimenti. E se una parte di questa domanda passa per la capacità di spesa dei comuni, ci vogliono scelte di bilancio che non centralizzino di nuovo tutto svuotando di senso le linee e i bisogni dei fattori di sviluppo locale. Nel nord questo sembra il primo problema da correggere, unitamente all’esigenza di riaprire i flussi di credito verso imprese e famiglie, anche per evitare quel che si è verificato fino ad oggi e che ha costretto alla chiusura tanti esercizi e tante attività di piccolissime imprese spesso a carattere artigianale colpite, prima ancora che dalla crisi di domanda, dalle difficoltà di ordine finanziario.

Il secondo punto di un patto sociale deve muovere dalla ripresa di una politica industriale fortemente legata agli strumenti di programmazione regionale, fondata sul rapporto tra istituti di ricerca e innovazione, università e punti di formazione d’eccellenza, e il sistema delle imprese. Come ha suggerito per ultimo anche il governatore della Banca d’Italia, il campo delle energie rinnovabili e delle reti, quello della messa in sicurezza del territorio e delle città, la frontiera del risparmio energetico e della bioedilizia, rappresentano il cuore di una diversa e più moderna idea di politica industriale.

E proprio per questo la dimensione regionale è quella maggiormente adatta ad un governo efficiente delle scelte e dell’allocazione territoriale. Naturalmente bisogna evitare che le modalità dei tagli lineari decisi dal governo abbiano gli effetti negativi lamentati dagli enti locali e che si tengano assieme anche a questo livello le scelte del rigore e quelle della crescita.

Il terzo punto di un lavoro condiviso tra le parti sociali riguarda il tema della produttività. Qui scontiamo come paese il ritardo più pesante, soprattutto rispetto alla situazione tedesca nel corso del decennio che abbiamo alle spalle. Occorre essere chiari: il nostro ritardo si gioca soprattutto su due fattori, gli investimenti in innovazione e l’organizzazione della produzione, a partire dalla gestione dei tempi e della formazione del lavoro. Qualsiasi accordo deve quindi partire da questi terreni,come pure in molte aziende si è fatto e continua a fare. E bisogna rendere più efficiente tutta l’infrastrutturazione, soprattutto quella immateriale.

Uno spazio che andrà affrontato in maniera totalmente nuova riguarda la gestione delle crisi e delle ristrutturazioni in relazione agli strumenti disponibili. Con la inopinata riforma del lavoro verranno infatti a mancare una parte degli ammortizzatori esistenti e questo, in rapporto alle modifiche introdotte nella età del pensionamento, renderà superato lo schema del passato, quando gli ammortizzatori potevano accompagnare alla pensione i lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali.

Dobbiamo prendere esempio dalla Germania, favorire politiche di solidarietà tra i lavoratori riducendo l’orario e favorendo percorsi di riqualificazione, con un diverso valore da attribuire all’esperienza, alla seniority, alla coesione sociale. Su questo aspetto faremo una delle verifiche dei mutamenti in corso.

Da molte parti si dice che con la crisi si supera quella cultura dell’individualismo proprietario, dell’identità ristretta e chiusa che ha contrassegnato l’ondata liberista anche nel nostro paese. Molti segnali ci dicono che qualcosa sta realmente cambiando e che si fa strada una idea più cooperativa dell’agire e della responsabilità individuale e anche un diverso rapporto tra il ruolo del pubblico e le nuove domande sociali prodotte dalla durezza della crisi. Se si guarda al terremoto e alle dinamiche sociali che ha determinato, effettivamente si coglie lo spirito di un possibile cambiamento. E la stessa maturità si coglie nel rapporto tra impresa e lavoro,con l’eccezione della Fiat, e nella volontà di condividere un progetto di fuoriuscita dalla crisi, senza rassegnazione o reciproche subalternità. La nuova Confindustria di Squinzi si vuole muovere in questa direzione e tutti dovrebbero apprezzare questa scelta e anche il linguaggio di verità e poco paludato che comporta. Ma ora, come pure Squinzi ci dice, tocca alla politica tornare a guidare i processi sociali e culturali necessari. Una politica di vera concertazione in Italia manca da quasi 12 anni.

Con la concertazione si superò la gravissima crisi del ’92, si stabilì il patto sulla politica dei redditi dell’anno successivo, si affrontò la prima riforma radicale, basata sul sistema contributivo, del sistema pensionistico, si costruirono le condizioni per l’ingresso nell’Euro. Con i governi di centrodestra si affermò un’altra strada, quella degli accordi separati,delle trattative clandestine,della divisione sindacale.

Gli anni del declino sono stati accompagnati dall’abbandono di una vera e trasparente concertazione. Per questo tocca alla politica decidere, e soprattutto al centrosinistra. Un patto per la crescita nel mezzo di una crisi come quella che viviamo sembra una sfida temeraria e ai limiti del possibile. Ma non lo è certo tornare a scommettere sulla coesione tra i soggetti della rappresentanza sociale e a porsi, come paese, l’obiettivo di una maggiore uguaglianza e giustizia sociale come fattore di crescita e di sviluppo magari riprendendo, attualizzandola, la grande suggestione del piano del lavoro. Nel 1949, nell’Italia di quel tempo, fu l’occasione per affermare che ci voleva una diversa politica economica per l’occupazione. Oggi potrebbe essere l’occasione per ridare speranza e fiducia ad un paese scosso e in profonda difficoltà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *